domenica 19 aprile 2015

Celebrati i funerali del prof. Carlo Marchesani

Ricordo - Carlo Marchesani e la sua casa
di Luigi Murolo
Orazione funebre per la scomparsa di Carlo Marchesani. Vasto, chiesa di S. Maria Maggiore, 19 aprile 2015

Carlo Marchesani non abitava una casa. Lui era quella casa; ne era l’identità. Da essa ne traeva fuori tutto: l’anima, il respiro, la vita. Con la consapevolezza
di essere l’ultimo del suo lignaggio cercava di costruirne il racconto. Del resto non era stato forse Walter Benjamin ad affermare «struttura e vita interferiscono continuamente in cortili, arcate e scale. Dappertutto si conserva lo spazio vitale capace di ospitare nuove, impreviste costellazioni»? Non dobbiamo meravigliarci, allora, se proprio da quell’angolo di casa Marchesani dalla mossa facciata interna che apre su di un’antica piazzetta chiusa al pubblico – così come traspare da una tela di Florindo Ritucci-Chinni custodita nel cuore del monumentale edificio –, il viaggiatore incantato poteva stabilire un rapporto più meditato con la segreta comunicazione sonora delle cose.
Ma qual era la narrazione che Carlo voleva tracciare? Provo a darne brevemente il profilo. L’anno è il 1883. Dalle dense brume della Londra vittoriana William Michael Rossetti cominciava ad intrattenere una significativa corrispondenza con il parente vastese Giuseppe Marchesani, nonno di Carlo (figlio del ricco mercante Gregorio e di Felicia Rossetti, sua zia in seconda). A cento anni dalla nascita del padre Gabriele morto in esilio dalla patria napoletana, per onorarne il ricordo, il grande critico della Confraternita dei Preraffaelliti puntava il cannocchiale dell’attenzione sulle radici avìte nel Vasto Aimone (o, ancor meglio, in quel «Vasto Ammone in the kingdom of Naples», stando a quanto recita l’iscrizione sepolcrale della tomba rossettiana di Highgate Country), con l’esplicito intento di riscoprire l’originaria identità della sua genealogia di artigiani, del suo nome e della stessa città dei padri che, con singolare delicatezza di residente mancato, egli rammentava essere posta sotto l’ala protettrice di quell’arcangelo Michele di cui – per volontà paterna – ne rinnovava l’appellativo.
Che lo si voglia o meno, nell’odierno palazzo Marchesani di via S.Maria Maggiore – appartenuto alla stirpe dei Cieri fino al lontano 1832 – sono ancora visibili le testimonianze dell’antico rapporto epistolare intercorso tra i due cugini (peraltro ricordato dallo stesso personaggio londinese in quelle pagine familiari divenute oggi straordinario documento di gusto e di sensibilità fine secolo). Quasi non bastasse, insieme con le lettere autografe di William Michael, memorie fotografiche d’epoca e raffinate copie di dagherrotipie Talbot restituiscono – simile ad una sorta di particolarissimo «goblin market» domestico – l’immaginario ottocentesco dei Rossetti inglesi (è certamente d’obbligo, nella citazione, il riferimento all’infelice Christina che dona al consanguineo una copia autografa delle sue opere. Una copia autografa che Carlo mi ha fatto toccare).
Tra le preziose tracce iconografiche qui custodite non si possono sottacere le riproduzioni su lastra di Lewis Carroll (La famiglia Rossetti a Cheyne Walk,), di Julia Margaret Cameron o del laboratorio Elliot & Fry (allocato sempre a Londra, al 55 di Baker street, la via in quegli anni divenuta celebre per l’abitazione all’inesistente n. 221 b che il dr. Conan Doyle suggeriva come residenza dell’impareggiabile Sherlock Holmes). Oltre che conservare questa importante tranche culturale dell’Inghilterra di secondo Ottocento, la «house of life» dei Marchesani (tanto per non sottrarci ad una suggestione poetica di Dante Gabriel) accoglieva ritratti di quel protofotografo vastese Giuseppe De Guglielmo che, nipote di Filippo Palizzi e parente dell’altro Giuseppe su ricordato, avrebbe trovato proprio in questo magnifico palazzo vastese d’antan (dai caratteri stilistici prevalentemente classicisti) la documentazione iconica carrolliana che, con misurata invenzione d’artista, lo avrebbe condotto a realizzare uno dei più significativi dagherrotipi italiani degli anni Ottanta dello scorso secolo, in cui protagonista era la famiglia Marchesani..
Nella grande sala della Casa – dove le cose erano rimaste immutabili e consunte solo dal tempo (peccato Carlo che tu abbia voluto sostituire gli splendidi parati à la William Morris) –, si avvertiva la stessa rarefatta atmosfera dell’olio su tela che Henry Treffey Dunn dedicava a Dante Gabriel Rossetti lettore nella sua abitazione di Tudor House. E in un luogo così carico di memorie dove, nel lontano 1883, un comitato di soli tre probi – Giuseppe Marchesani, Adelfo Mayo, Achille Pietrocola – si riuniva per sovrintendere all’edizione delle opere di Gabriele Rossetti, pareva di ascoltare la stessa eco di quei distici del White Ship in cui Dante Gabriel aveva dichiarato: «Non s’udiva che il suo passo attraversare la sala/ perché tutti i signori erano in silenzio».
Che dire di più, carissimo amico. Tu eri questa storia. Quando le tue gambe erano insicure ma ancora ti sorreggevano, udivo i tuoi passi perché ero in silenzio. Ne ascoltavo le diversità quando cercavi un libro nella tua biblioteca. Primo, secondo, terzo ripiano … Quasi paradossalmente, il tuo fragile corpo riverberava proprio nei passi la distinguibilità della sua voce cara e sincera. Una voce, amico mio, che hai lasciato vibrare fortemente, quando tu, io e quattro/cinque residui amici abbiamo accompagnata all’ultima dimora Annamaria Anelli, la grande interprete della Sonnambula belliniana, colpevolmente dimenticata dalla città.
Ma poco importa. In quella casa vive la tua anima. La sentirò vibrare quando mi avvicino. Magari scampanellerò al portone. Entrerò con la mente ai piedi della scala. Sulla sua sommità troverò un vecchio signore dall’accogliente sorriso che, con l’acribia di sempre, continuerà a raccontarmi gli ultimi sondaggi compiuti sull’essere di quella casa.


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